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venerdì 5 maggio 2017

CONSULTA  REGIONALE  FEMMINILE
DELLA  VALLE  D’AOSTA

Più di 500 opere giunte dalle numerose  località dell’Italia, Francia e Svizzera partecipano ogni anno nel concorso “Donne al opera”
Solo i venti scritti sono stati premiati e pubblicati.
Tra quelli, per secondo anno consecutivo, il racconto “ L’ascensore”.

Concorso - DONNE IN OPERA.
 Il tema del concorso: IL CORPO RACCONTA”

I testi dovranno mettere in evidenza ed esprimere in senso artistico il significato simbolico e culturale del corpo delle donne e raccontarne l’uso mediatico in contrapposizione con il vissuto e l’esperienza quotidiana delle “donne reali”. 

L’ascensore




                                   Acrilico su tela  50 x 50 - Daniela Karewicz

            Come tante donne coreane che sfuggono alla fame e alla miseria del proprio paese, anche Yŏng divenne una vittima del traffico di esseri umani.
Il suo corpo rientrava nello standard richiesto dal mercato e molto presto fu comprata, moglie,  da un industriale cinese per un modico prezzo di 528 dollari.
            Yŏng si alza ogni mattina un’ora prima del marito. Prepara una complessa composizione floreale e la depone sul tavolino accanto alla colazione. Poi torna in cucina per stirare una camicia, perché a lui piace tanto metterla ancora calda!
Ogni sera fa un bagno profumato, cosparge sul suo corpo oli balsamici e lo aspetta fin quando non torna dal lavoro.
Un giorno il marito la chiama a telefono per comunicarle che la multinazionale di cui è socio lo avrebbe inviato a Milano, che sarebbero partiti insieme e che la loro partenza sarebbe stata imminente.
Dopo questa notizia Yŏng si precipitò a fare delle ricerche su Internet.
Mentre lei si eccitava a scoprire  tutto su quella città dal nome così difficile da pronunciare, lui si eccitava con la sua segretaria.
La mattina successiva mentre lui si affrettava a lasciare il letto dell’amante, Yŏng  si affrettava  a disdire i corsi all’Università dove studiava lingue.
Lo stava facendo per lui con la stessa prontezza con cui, una volta interruppe una gravidanza.
Si ricordava bene quando fu obbligata ad abortire, lo fece perchè stava aspettando una bambina.
Era incinta da venti settimane quando si recò in una clinica specializzata. La sala d’attesa era piena di disperate come lei, ciò nonostante le operazioni si svolgevano con una certa velocità; ogni venti minuti usciva dalla sala operatoria uno straccio di donna piegata in due.
Una ragazzina che sembrava minorenne cercava di consolarle.
Raccontò la sorte di sua sorella incinta che era finita in carcere dopo aver ammazzato il suo compagno violento.
Poco dopo la nascita della bambina, quando vide un'infermiera premere un asciugamano bagnato sulla faccia ancora sporca di placenta, si era ripetutamente infilata le forbici nell’addome.
La bambina aveva smesso di piangere dopo dieci minuti, sua sorella aveva smesso di urlare dopo mezzo ora.
Yŏng, una volta uscita dall’ospedale, piegata anche lei in due, decise di telefonare al marito che con una voce ansimante le ordinò di chiamare un taxi, perché  era impegnato.
Yŏng riconoscendo in sottofondo le risate ed i gemiti della segretaria avrebbe voluto infilarsi, anche lei, le forbici nell’addome.
La segretaria non era più bella di lei, ma aveva  la pelle più bianca, il naso più sottile e gli occhi  “diritti”.
In breve tempo anche la pelle di Yŏng divenne alabastrina, il naso più lungo e alle sue palpebre aggiunse uno strato di pelle.
Suo marito non si accorse di nulla.

            A Milano risiedevano in una lussuosa palazzina aziendale con l’ascensore.
La vita di Yŏng non era cambiata, passava il suo tempo a dedicarsi alla casa, ad aspettare il marito e a curare - per lui - il proprio corpo. Tutti i giorni applicava sul viso maschere rigenerative, si depilava e si spalmava con balsami sbiancanti. Faceva anche una dieta rigorosa a base di certe alghe orientali.
            Una mattina portando nello scantinato il bucato da lavare, vide sul pavimento dell’ascensore un tanga a brandelli.
Si mise a piangere.    
Aveva riconosciuto il tanga. Lo vedeva spesso ad asciugare, insieme all’altra biancheria, sul balcone accanto. 
Yŏng invidiava la sua vicina Cinzia, soprattutto per la sua indipendenza. Ammirava anche il suo seno abbondante e le lunghe gambe.
Si pentiva adesso di non essersi sottoposta, quando era ancora in Cina, all’intervento per l’allungamento delle gambe.
A quel tempo le sembrava troppo spezzarsi le tibie per guadagnare dieci centimetri in altezza.

            Cinzia era cresciuta in una famiglia molto agiata. Si era laureata in economia e commercio, conosceva quattro lingue ed era molto ambiziosa.
Concludeva gli affari con una sorprendente facilità.  Era seria e allo steso tempo esuberante e non esitava ad usare il proprio corpo come un mezzo per ottenere maggiore successo.
Era troppo intelligente per non farlo.
I soldi che spendeva per gli interventi plastici li considerava un investimento.
Di solito, le attenzioni dei clienti cadevano sulle trasparenze che esaltavano il generoso décolleté ricostruito,  per seguire poi gli abbondanti glutei siliconati. L’attraente ondeggiare dei lunghi capelli tinti e il seducente broncio della bocca gonfia di collagene,  completavano il quadro di una  sensualità raffinata.
Sotto questo torturato cinismo, però, si nascondeva una donna sensibile che sognava di trovare un amore puro, un marito. Avrebbe voluto anche dei figli, ma forse più avanti... una gravidanza, adesso, avrebbe potuto rovinare le sue forme perfette.
Quando ottenne l’incarico di manager-marketing consumer per una multinazionale, si trasferì in una palazzina aziendale a Milano.
I continui viaggi di lavoro le impedivano di stringere rapporti o amicizie e in pratica la condannavano alla sofferta solitudine.
L’unico contatto, anche se fuggitivo, lo aveva con i suoi vicini di piano.
Di solito intravedeva nel giardino della terrazza una bellissima coreana  immersa spesso in catartica meditazione.
La invidiava, sopratutto per la sua devozione verso la casa e la  famiglia. Sempre sorridente, evocava un perfetto equilibrio tra corpo, mente e spirito.

            Incontrava suo marito, dispotico uomo di successo,  durante le assemblee   al primo piano della palazzina.
A riunione finita, prendevano l’ascensore insieme... quella volta  voleva essere stuzzicato con i suoi sexy tacchi a spillo.
Lei si difese un po’ e lui le strappò il tanga.
Il giorno dopo si imbatté  in ascensore con la moglie di lui che scendeva in lavanderia. Era incinta di almeno otto mesi.
Con un braccio reggeva una cesta di camicie di suo marito, con l'altra mano stringeva a sè i tre maschietti.
I loro sguardi
si incontrarono in un tacito segno d’intesa.
Da quel giorno Cinzia decise di non prendere più l’ascensore...
                                                                                                                                        

                                                Daniela Karewicz

giovedì 22 maggio 2014

Mughetti

                   Acrilico su lamiera, diametro 60cm.

I candidi campanelli sgorgano dal profondo nero,
 rispecchiano la luce lontana.
Risuonano con parole caduche che echeggiano 
nell'anima con una cascata infinita dei petali.
Contemplo un fragile bocciolo 
che freme sotto il peso  di una goccia di rugiada.
Si schiude con un tenue tintinnio di rime…

Daniela Karewicz

lunedì 1 ottobre 2012

Nostalgico Notturno



…È  lontana casa mia
tutte le chiavi perse
nel bagaglio  confusi  ricordi
del cortile
sulla via verde.
 È tutto rimasto lì:
una vecchia moneta di mio padre
della mamma…il libro dei sogni
l’orologio  d’argento del nonno
un paio di occhiali.
                                     Questi incontri sull’altalena
quando dolce maggio ci inebriava,
arrivavi con la tua lambretta
…la tua purezza mi incantava.
Scoprivamo l’odore dei mughi
le loro chiacchiere folte
Chopin seduceva nel buio
col suo nostalgico Notturno.

Daniela Karewicz

https://www.youtube.com/watch?v=YGRO05WcNDk

                                                           Chopin Nocturne Op.9 No.2


sabato 7 aprile 2012

Sfiorarsi

La sua vita era stata annientata in un attimo. Nel suo cervello andavano affermandosi sempre più tre  parole: “sei ancora qui”.
Si era reso conto della malattia un giorno d’autunno e di nuvole. In quel giorno, a cielo chiuso, si accorse di afferrare  male alcuni oggetti. Il sole si spense per sempre.
Quando fu pronto andò all’incontro con il male, sfidò il morbo e trionfò.
Le sue gambe diventarono come due tronchi scombinati, sorprendentemente sicure.
Il bastone si aggrappava all’aria, ballava la tarantella, afferrava la sicurezza  per affidarsi infine alla Divina Provvidenza.
I piedi erano due ventose perfette, andavano alla cieca, ma non sbagliavano mai.  Si attaccavano al terreno, alle scale, erano artisti per una platea di curiosi.  
Quella sera li appoggiò all’ombra del bancone del bar, per non mostrarli a nessuno, ma quella sera se li trovò incerti. Percepì un odore di femmina.
Lei era seduta con le gambe accavallate, lunghe ed esili. Delicata, di fragile bellezza, sorrideva appena, racchiusa nel suo silenzio. Avvolta negli inquieti fumi delle sigarette, sembrava una ninfa smarrita nelle nebbie.
Si avvicinò a lei,  un’andatura indurita accompagnava i suoi passi, il dolore al ginocchio lo faceva zoppicare ancora di più. La grappa e la paura gli fumavano in testa.
Fu sorpreso ad annusare l’aroma degli ormoni e dei sogni. Stava affannando, non era solo sforzo, ma un principio di rinvigorimento. La musica suonava un inno d’amore e di sofferenza.
Poi la vide danzare.
I tacchi rossi sfavillavano nel ritmo furioso. I capelli color grano ondulavano lungo la schiena. La spalla nuda e bianca rapiva sguardi annebbiati dall’alcool.
“Vieni a ballare con me” - disse con la voce spezzata da un crampo.
Non era più abituato a stare davanti a una donna, gli dava quasi fastidio l’odore profumato con cui lei marcava l’aria. Le si appoggiò, si dimenticò del bastone.
Sfiorarle la mano provocò un’esplosione dentro di lui. Il contatto con le dita era la spudorata intimità mascherata da forma-di-saluto. Si guardò la mano e la mise in tasca. In macchina la passò più volte sul volante, non per cancellare, ma per conservare quel contatto.
Era come un avvoltoio, sempre pronto a catturare una preda. Una straniera con un comportamento diverso, secondo lui spudorato, avrebbe dovuto essere più facile da conquistare.


Come tutte le ragazze, sognava di essere rapita da un principe azzurro per rifugiarsi nel verde sconfinato della foresta sensuale, ornata di brillanti. Non si rendeva conto che quell’intenso desiderio di trovare l’Eden faceva di lei cibo per predatori e fin troppo facilmente attirava su di sé promesse di agio.


Lui non rispecchiava per niente l’uomo dei suoi sogni. L’unico pregio, che riscattava i suoi innumerevoli difetti, era l’infinita gentilezza. Pensava ai mercanti di fumo che finora aveva incontrato, ma questa volta le sembrava tutto diverso.
Forse per la sua condizione fisica si illudeva di trovare qualcosa in più, forse un essere umano.
Una leggera inquietudine, dettata dal suo istinto, la metteva in guardia contro la tentazione di avvolgerlo in un’aura romantica, ma si faceva lo stesso adescare dai mille gesti cortesi di cui la circondava.

Era inginocchiato sopra di lei che guardava oltre lui, occhi abituati alla luce.
Seguì quello sguardo, ma vide il buio.
Cercò di sfiorarle la mano … non la trovò.


                                                                                                                          Daniela Karewicz

mercoledì 25 gennaio 2012

FLASH


Il racconto è basato su fatti realmente accaduti.



Un frivolo spettegolare risuona malizioso nell’elegante salotto in stile biedermeier. Lo scandaloso  matrimonio tra un nobile e una plebea sconvolge  l’aristocratico mondo della cittadina di provincia.
Ogni tanto scatta un flash. Una figura in nero si aggira tra gli invitati riprendendo le  facce, quelle che si mettono con prepotenza dinanzi a lui e quelle che si nascondono timidamente nella penombra.
Dopo la lauta cena servita su antichi vassoi d’argento, gli ospiti brindano con la wódka alla salute del festeggiato.
È  il compleanno di Marian, giovane rampollo di una nobile famiglia.
Compie venticinque anni.




Con corale “na zdrowie” i preziosi bicchierini di cristallo finiscono sbattuti sul parquet intarsiato in ciliegio.
Sfrontati toni di mandolino accompagnano un canto melodioso: Marian, con ostentata superbia, si esibisce con salmi. Affascina tutti.
Uno scialle color rosso porpora contrasta col suo armonioso aspetto... lineamenti morbidi, capelli castani pettinati all’indietro, melanconici occhi grigioverde.  Le sue poesie declamate con boriosa enfasi fanno battere i cuori delle pallide signorine.
Dopo gli applausi, annoiato, prende una mela e si allontana furtivamente.



I gelidi venti di guerra sconvolgono il suo piccolo mondo. Si perde, non sa cosa fare, nessuno lo sa.  E’ la prima volta che vive qualcosa di così intenso, così reale.
 - Devo fare qualcosa! -  urla furibondo,  sbattendo contro lo scrittoio il suo prezioso mandolino. 
Il presagio del  fatale destino  si impossessa di lui. 
Entra a far parte del gruppo dei giovani ribelli,  pronti a fare qualcosa contro la guerra,  più per l’avventura che per l’ideale. Incoscienti, si limitano a tirare le pietre sugli  autocarri  della Gestapo.



-  Il nostro mondo è finito. Dobbiamo nasconderci. - si dispera la madre con gli occhi gonfi nella faccia addolorata,  baciandolo sulla fronte.
 -  Ad majora natus sum, ricordalo sempre figliuolo. - si raccomanda il padre, fiero,  stringendolo in un caldo abbraccio d'addio. 
Davanti alla palazzina di famiglia occupata e trasformata nella sede del governo tedesco, Marian saluta i genitori. 
Un flash memorizza l'ultimo ricordo della famiglia annientata dal pogrom.


***
- Sei fortunato trovare qualcosa. Stamani tutti sono qui davanti, in piazza. - farfuglia a   Marian lo storpio bottegaio ebreo,  lisciando la sua barba odorante d’aglio e di cipolle.
-  Dammi allora una pagnotta, un pentolino di latte e una mela. Hai forse qualche cicca?  -
-  Ho sei sigarette. Intere. Delle Pall Mall! Se paghi i debiti, sono tue. -
-  Si, si, ti pago tutto! Oggi è il tuo giorno fortunato. I miei mi hanno passato un po' di denari.  Allora, che succede in piazza?


Nascosto dietro la porta osserva e ascolta: sente i nomi di persone da arrestare, tra cui alcuni amici del suo gruppo politico.
Torna a casa atterrito. Tira fuori il pullover di cachemire e l’amato scialle rosso di seta pura.
Con mani tremanti avvolge in un vecchio giornale gli ultimi ricordi del suo passato, distante e sacro,  e porta il pacchetto agli amici. 
Li trova allineati davanti al muro sgretolato del suo vecchio ginnasio.
Arriva un camion. Balzano fuori quattro giovani nazisti in divisa grigioverde,  puntano i mitra e li investono  con una raffica di pallottole.
Marian, terrorizzato,  cade sulle ginocchia.


***


Uno sfrontato flash riprende tre parti della testa, nuda e sanguinate, di Marian.
Una voce abbaia: - sai il tedesco,  che lavoro sai fare, sai guidare? -
Marian alza lo sguardo e i suoi occhi,  per un attimo, si incrociano con quelli del nazista.
Non aveva mai visto un colore come quello!
Cielo d’inverno, stagno ghiacciato.
-Si -risponde - so il tedesco -.
Nella scodella, una zuppa acquosa e un pezzo di pane nero.
Una coperta assegnata da qualcuno. Un posto per dormire.
Marian non dimenticherà mai quella notte, la prima notte nel campo, una notte che durerà sei interminabili mesi segnati da fame e terrore.
Capisce appena dove si trova e a fatica ricorda l’incubo della sua cattura.
-Questo diventerà un semplice complesso di accoglienza dei prigionieri.-
traduce durante il primo appello alle sei del mattino.


Cominciano a stendere le recinzioni di filo spinato, a costruire cucine e  magazzini. Spesso lo assegnano anche a fare il contabile o l’interprete.
Un giorno nota sul pavimento un documento. Correndo un rischio mortale porta quel pezzo di carta nella baracca.
Comprende, leggendolo, che alla fine della costruzione del lager in Auschwitz  i testimoni dovranno essere mandati via.

-Allora ci troviamo in Auschwitz?  Dove è?-  pensa intensamente - Ma si,  Oświęcim, vicino Kraków. Qui c’e scritto che dobbiamo essere mandati via, ma dove?-

Da nessuna parte c’era scritta la destinazione!
Sospetta che quel posto nasconde un obiettivo mostruoso e oscuro.  A  cosa dovrebbero servire baracche con castellature di legno a due piani, edifici con alti cammini con enormi forni o docce comuni senza l’impianto dell’acqua?


-  Saremo sterminati tutti!  – mormora, in una notte fonda a Józef, il suo compagno di letto.
-   Marian, bisogna scappare! Ti ricordi il posto dove puoi nasconderti?-
-   Sì, il tuo villaggio, Krupa. Circa 300 km da qui, nel centro della Polonia. -
-   La mia famiglia è contadina, molto povera, ma ti accoglierà.
Sai, siamo sei fratelli. La più piccola si chiama Janina. E’ la più bella  fanciulla di tutta la zona. Ti ricordi il mio sopranome da partigiano? -
-  Quercia. -
-  Hai potuto rubare le medicine per il russo? Non riesce più ad alzarsi, poveretto.   Anche l’ungherese è in fin di vita -
-  Sì, sono riuscito a fregare qualcosa. Tieni anche la mela. Me l’ha data Hans, quell'ufficiale che chiude sempre un occhio sui miei furti.
Se non ci  fosse lui... -

-  Oh, come profuma ‘sta mela. Il frutteto a casa mia era pieno di meli -  piagnucola Józef.
-  Mi ricorda la mela del mio ultimo compleanno.-  sospira Marian.
Sotto le coperte divorano di nascosto la  mela. La più gustosa, succulenta e saporita mela che abbiano mai mangiato.
Una voce con accento ebreo, spezzata da  una tosse furiosa, implora.
- A me! Un morso! A me! Prego! -
La buccia, i semi, la piccola foglia misera e secca attaccata al gambo, sono scrupolosamente, insieme a quel gambo duro e legnoso, divisi e rosicchiati.


Nell’oscurità della notte, un soffocato  mugolio echeggia, dolente.
Fuori, un’ incessante tempesta fa tremare il mondo.
Un dirompente lampo illumina facce scheletriche, senza speranza.
La loro baracca è satura di morte. La morte è lì, nascosta in  ogni angolo. Quando siede sul bordo di qualche branda, si chiamano i  gendarmi.
Il giaciglio accoglie in un abbraccio di coperta scura e logora un corpo.
I compagni dedicano un ultimo sguardo a quel volto immobile, ormai trasfigurato con la bocca serrata e bluastra, le guance svuotate e scure, gli occhi appena socchiusi e infossati, le braccia e le gambe esili, le mani martoriate dai lavori pesanti, i ventri scavati con le costole che quasi tagliano la pelle di pergamena. La morte, spirale sottile, lascia la branda. Si impadronisce di ciò che resta, si insinua nelle fessure delle porta e si allontana da quel posto sfiorando col suo lungo velo i pensieri di tutti.
Una funebre carovana avanza verso un fosso. Su un’asse un corpo. E’ Józef. Gli occhi riflettono un ultimo flash... un campo fiorito di rosso e blu di papaveri e di fiordalisi. Là...sarà grano, sarà figlio, sarà casa.


***

Arriva la primavera e Marian viene mandato con gli altri fuori dal lager a lavorare i campi, spaccare le pietre del fiume, costruire strade e raccordi ferroviari.


Passano mesi e in una luminosa mattina d’agosto avviene qualcosa di diverso.
Il cielo, di un azzurro spudorato, fa da sfondo al verde sbiadito del boschetto vicino. I campi dorati ondeggiano in una danza senza musica.
Il loro convoglio, tetro e dolorante, attraversa la strada sterrata orlata di cespugli appassiti. Marian conosce bene il percorso del terrore, conosce bene le abitudini dei sorveglianti che dopo mesi di routine hanno abbassato la guardia. A volte sembrano anche loro prigionieri. Si sono placati,  non sono più aggressivi come all’inizio. Talvolta sembrano quasi umani.
La folle idea di fuga si è impadronita di lui da quando insieme a Józef  l’avevano concepita.
E forse è arrivato il momento di realizzarla.
Ora! Subito!
Insieme con gli altri si lamenta di mal di pancia. La dissenteria è un male frequente e se necessario si levano le catene dai polsi. I boia decidono il momento di sosta. Nel punto dove il grano è più fitto, più alto e più ricco Marian si accuccia e strisciando sulle ginocchia si allontana velocemente dileguandosi nel nulla. Non sente nessun inseguimento, si muove come un lupo, agisce d’istinto, cammina veloce. Raggiunge il ruscello e si immerge per far perdere le tracce ai cani. La dove l’acqua è più profonda, nuota. Dopo ore di cammino, stremato, si avvicina alle stalle e ai fienili  di una fattoria, ruba  vecchi stracci, più sacchi di juta che vestiti, fa i buchi per le braccia e la testa.
A un certo punto sente un rumore. Vede una vecchia con un grande scialle a fiori sulle spalle. Si guardano a lungo negli occhi. Lentamente, la donna si sfila gli enormi stivali di gomma, strappa i pantaloni e la giacca dallo spaventapasseri e pone tutto davanti a lui. Lascia anche la cesta con qualche uovo, ortaggi e frutta.
Senza dire una parola si gira e, appoggiandosi su uno storto bastone,  si allontana lasciando tra i solchi di patate le deformi orme di piedi scalzi.
Marian dorme tutto il giorno in una fossa, coperto di fogliame, lontano dalle abitazioni.
Aspetta la notte.
Da lontano sente gli spari, il cielo è disturbato dagli aerei. Studia il percorso guardando le stelle. Fa il punto della situazione e si allontana velocemente verso la direzione giusta, a volte camminando lungo i binari, talvolta aggrappandosi a qualche lento convoglio.


E così, alla fine, arriva nel sospirato villaggio. Aspetta nel bosco vicino, e a notte fonda bussa delicatamente alla finestra sul retro della casa.
All’improvviso una mano lo afferra alle spalle e lo spinge verso la porticina della cantina.
-Quercia, Quercia!- strilla istericamente.

Per primo gli fanno il bagno. La bacinella di latta splende d’oro e il grigio sapone sprigiona profumo. E’ coperto di pidocchi e piaghe. Lo rasano del tutto e lo spalmano con strani unguenti. Un pezzo di pane profumato di letizia, una scodella di candida ricotta che sa di gioia, alla fine un bicchiere di wódka d’allegria...e si sveglia dopo un paio di giorni.
Lo aspetta una brocca d’acqua fresca di pozzo e sulla stuba, nel pentolone di coccio rossastro, fuma la borsh.
Un paradiso!
Il posto è tranquillo, silenzioso, quasi dimenticato da Dio.


La guerra non esiste. Incantato, esce.
Al lato della strada dormono bianche casupole  con i tetti di paglia intrecciata.  Nei dorati campi ondeggia un buon raccolto.  Il  frutteto, curvo sotto il verde peso delle mele, gli fa ricordare Józef. Il pensiero di lui oscura lo sfacciato splendere del sole.
Torna a casa e getta lo sguardo nel grande specchio dell’armadio.
Vede uno spettro!  Chi è?
Il corpo, magrissimo, si indovina più che vederlo, sotto la bianca camicia da notte. Dall’apertura davanti si intravedono le costole, appena coperte di pelle sottile e gialla.  Il cranio rasato, il volto di cera, le guance scavate coperte di piaghe e gli occhi...occhi enormi grigioverde, luccicanti di febbre, sofferenza, terrore.
Prende la testa tra le mani sbucciate di color viola e si accascia lungo la parete, in un angolo, rannicchiato come un piccolo animale pieno di paura.
***


Sotto il melo, gli occhi di Janina e Marian si fondono in un profondo e appassionato sguardo.
- Ti ho portato i vecchi giornali.  Me li hanno procurati i partigiani,  sai, quelli del gruppo di Józef. -
Sfogliano insieme pagine ingiallite e Marian nota che Janina sa leggere appena.
Con l’unghia spezzata e nera, consumata dal lavorare la terra, sensibile indica  alcune foto.
Proprio in esse Marian riconosce tutti i flash vissuti.

***

Stretto al seno un figlio morto. Di fame.
Sul letto giace Janina, languida, non si muove.
Seduto nel buio angolo, Marian rosicchia il ciuccio e fa ninnare la culla bianca e vuota.
Nella stanza entra prepotentemente l’ufficiale tedesco. Cerca Janina, segnata alla deportazione  in Germania per lavorare nelle fabbriche.


Fermo sulla porta, osserva la scena. Poi si gira bruscamente ed esce. Troppa angoscia anche per lui in quel posto. Da mesi staziona in Krupa è con Marian che faceva magazziniere nella caserma, parlavano a volte. Di musica, d’arte, d’anima.
Da un vecchio portafoglio in pelle, nell’ anno  1944,  Marian ritaglia le prime scarpette per Bożena, la sua seconda figlia di undici mesi. La capra Barbara, saggia e colma di latte, la accompagna nei suoi primi passi.
***
Le trecce color grano ornate di rosso dei papaveri e blu dei fiordalisi coronano la superba fronte di Janina.
Dal corpetto ricamato di variopinte pailettes sgorga la candida camicetta in batista. Il  bianco grembiule scende lungo la gonna a fiorellini sbiaditi, coprendo appena  gli scarponcini bucati.
- Ad majora natus sum. - pronuncia Marian la solenne promessa.
- Che vuol dire? - domanda Janina alzando lo sguardo limpido e fiero.
- Siamo nati per cose grandi - risponde Marian alla sposa, baciandola teneramente.
***
Un frivolo spettegolare risuona nell’aia. Il matrimonio, tra il nobile Marian e la plebea Janina, sconvolge tutti.
Ogni tanto scatta un flash. Una figura in nero si aggira tra gli invitati riprendendo le loro facce.
Dopo una scarsa cena servita su vassoi d’argilla, gli ospiti brindano con la wódka alla salute degli sposi.
Con corale “ na zdrowie” i bicchierini di vetro finiscono sbattuti in terra.
La festa, semplice, è rallegrata da un canto melodioso accompagnato dai dolci suoni del mandolino. Marian, con umile semplicità, si esibisce in salmi.
Uno scialle color rosso porpora è in contrasto col suo armonioso aspetto. Le sue poesie, declamate con enfasi, fanno battere il cuore di Janina.
Dopo gli applausi, felici, prendono  una mela e si allontanano furtivamente.



Daniela Karewicz