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mercoledì 15 dicembre 2010

Pummarola a Natale

Sono stata battezzata nel giorno di Natale alle cinque del mattino in una chiesina abbandonata alla periferia di Roma.
- Giusto per non dare nell’occhio – disse il parroco.
I miei genitori si sono visti per l’ultima volta durante la cerimonia proprio in quella chiesa che li non ha mai visti sposi.
Per il rito mia madre mi avvolse nel velo nuziale mai indossato, da cui avrebbe confezionato il mio primo abitino per un prossimo Natale.
Assomiglio molto a mio padre, ho i suoi occhi celesti, i capelli chiari e il neo sullo zigomo sinistro. Da lei invece ho preso i lineamenti e il colore della pelle tipici dell’Igbo, la sua tribù  in Africa occidentale.

Col passare degli anni nella nostra casa è stato cambiato tutto, salvo la camera da letto. Ogni volta quando entro, mi sento come in un mausoleo.
Dalle fotografie appese su tutte le pareti mi scrutano gli occhi birbanti di mio padre e per la stanza si vedono sparsi alcuni suoi oggetti:
- sullo scrittoio, su appositi stoini, sei pipe di diverse forme,
- sul comodino, sulla parte sinistra del letto, un libro aperto alla dodicesima pagina, come lo aveva lasciato ventisei anni fa,
- nel angolo vicino alla porta un paio di sandali,
- nell’armadio due camicie blu appese alle grucce di legno. Mia madre le stira ogni Natale alle sedici in punto.

Da quando mi ricordo, nel giorno di Natale si vive un folle parossismo d’attesa
...di lui.
Nei miei primi anni non sapevo perché mia madre mi svegliava in quel giorno alle quattro del mattino per poi trascinarmi, con l’autobus, dall’altra parte della città. Stanche e infreddolite arrivavamo in una vecchia chiesa solo per stare sedute in silenzio una mezz’ora.

Non capivo neanche perché per il pranzo di Natale preparava, odiata da tutte e due,
la pummarola e mi inquietava a vedere sotto l’albero un pacchetto che non si scartava mai.
Solo dopo ventuno anni dal mio battesimo decise di rispondermi ad alcune domande.
- Tuo padre è l’unico uomo verso cui non nutro alcun rancore  - mi disse. 
- Perché proprio per lui? – domandai.
- Perché mi ha dato te . Solo lui avrebbe potuto darmi una figliacome te, solo lui – rispose.
Non era nella mia abitudine commuovermi, ma quella volta piansi di angoscia e d’odio nel confronti di lui.
Mia madre per ventisei anni non è riuscita ad abbandonare l’idea che sarebbe tornato e si era immaginata che, se fosse successo, di sicuro sarebbe accaduto nel giorno di Natale.
Mi rincresceva vederla tormentarsi in questa patetica e assurda attesa senza speranza, e coltivare una malata illusione che l’annientava.
Per superare dodici mesi dalle feste natalizie, segnati spesso da una profonda depressione, si chiudeva per ore nel suo mausoleo.
In questi casi mi veniva in mente che forse sarebbe stato meglio, se fosse diventata vedova. Così avrebbe potuto avere il certificato di morte di lui, una tomba da curare, i ceri per il Giorno dei Morti, fotografie sbiadite in un album e dei bei ricordi.

Mia madre è una donna bella e intelligente.
Quando è arrivata in Italia con la laurea in lingue conseguita in una università della Nigeria, credeva nella possibilità di trovare un lavoro adeguato alla sua preparazione. Pensava di entrare in una società basata sul dialogo, in cui le differenze fossero percepite come una ricchezza e non come una barriera.
Anche se consapevole, grazie alle avvertimenti dei media confermati dai racconti di chi ha lasciato il proprio Paese per un futuro migliore, è diventata lo
stesso una preda adescata e intrappolata in un tranello amoroso.
Alla fine, come tante donne immigrate, rimase da sola con un bambino.
Per mantenermi e continuare gli studi al Politecnico accettò qualsiasi lavoro le capitasse; fece la ballerina in un Night, le pulizie negli uffici, aiutò in una lavanderia e in un bar all’aeroporto.   

In tutti quegli anni le si sono avvicinati diversi uomini. Alcuni volevano passare con lei solo una notte, altri tutta la vita.
Anche questi secondi alla fine diventavano di passaggio. Verso dicembre cacciava via tutti quanti e con la coscienza pulita, nel giorno di Natale ritornava alla sua liturgica cerimonia: stirare le camicie e preparare la “santa pummarola”.

Mi è capitato un padre che, lasciando e abbandonando del tutto mia madre, l’ha segnata per tutta la vita. Le ha fatto molto male.
A me no.  
Ho saputo solo all’asilo che i bambini hanno dei padri.
So anche che per lui sono la “cosa” più importante. Basta che gli telefoni e lui lascia tutto, subito, per venire a trovarmi.
Per questo non lo chiamo mai, per non disturbarlo.
Non gli dico mai che sono orgogliosa di lui, faccio finta che la sua vita non
 m’ interessi, non lo ringrazio per le cose che mi manda, non lo abbraccio e non stringo a me.
Così gli faccio pagare...per la mamma.
E poi, non si merita di sapere che gli voglio bene...

Per l’ultimo Natale mia figlia ha scritto una lettera a San Nicolò chiedendogli se era possibile regalare a suo nonno, sconosciuto, un piatto di spaghetti con pummarola.

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