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giovedì 22 dicembre 2011

Schegge del viaggio

I sogni di Gulliver.
Concorso letterario di racconto di Viaggi.
 
 
Il racconto “Schegge del viaggio”
è stato premiato e pubblicato nell’anno 2011.


                                                                                                                            Foto: Amalia Sabatini


Andare in viaggio  per l’Europa accerchiati dal continuo incubo delle stesse facce dei miei compaesani mi dava l’impressione di non essermi mai mossa dalla mia città.
Questi giorni d’estate ondulati, dilatati dai venti, celavano nelle loro pieghe  sorprese continue.
Folle colorate scorrevano  in una baraonda chiassosa, in uno strascicare incessante di piedi, in un chiacchiericcio di decine di bocche brulicanti; camminate confuse lungo paradisiaci scogli, per le viuzze degli splendidi borghi.
Così scorreva quel fiume, pieno di brusio, di occhiate incuriosite, spezzato dalle risa e dalle grida.
Le feste e le cene erano “stazioni” di leggerezza e spensieratezza.
Mi incuriosiva il fatto che venivo presentata  sottolineando che sono polacca. Nessuno chiedeva le mie origini! Ero lì, all’estero, inserita nel gruppo italiano e non vedevo la necessità di far notare in ogni situazione la mia... “diversità”.

Il momento più significativo di tutta la gita fu il nostro ritorno.
Alla stazione mi fu assegnato uno scompartimento lontano dal gruppo. Mi trovavo finalmente da sola, staccata da tutti e da tutto.
Osservavo dal finestrino una donna di colore avvolta nelle caratteristiche vesti africane. Il giallo vigoroso metteva in risalto ancora di più la floridezza del suo corpo. Aspettava qualcuno e in attesa, impaziente, sfogliava ogni tanto un taccuino scrivendoci qualcosa.
Mi chiedevo se fosse stata lei la mia compagna di cuccetta. Infatti, in breve mi trovai in sua compagnia e anche delle altre sue due connazionali.  Lente e traballanti, con fatica trascinavano lungo i binari innumerevoli bagagli.
Seppellita sotto le valige, borsoni e zaini, non riuscivo a muovermi. Piano, piano, le donne si erano sistemate. Nel corridoio rimanevano ancora un paio di sacchi enormi e con crescente inquietudine mi domandavo come avremmo fatto a dormire. Il controllore mi guardava con pietosa preoccupazione e con“meno male che non si sono presentate altre due persone” mi prometteva di cercarmi un'altra sistemazione.
Le osservavo: visi in fiamme, gocce di sudore grondanti dappertutto. Una di loro, più anziana e più magra, abbracciava una pesante scatola di cartone di circa un metro per quaranta. Visibilmente provata, al mio tentativo di metterla a proprio agio,  non reagiva.
Tra i miei colleghi si era sparsa la clamorosa notizia della mia “sfortuna”.
Davanti allo scompartimento sfilavano occhi i lampeggianti di curiosità.
- Che disgrazia, meno male che non  è toccato a noi - mi compativano tutti. Fortemente divertiti, ci fotografavano e le donne erano informate delle mie origine polacche.
Ma a loro interessava la mia provenienza?
Stanche e impegnate a ordinare i bagagli, avevano appena prestato attenzione agli “invasori”.
“Siamo del Burkina Faso, ma prima di rientrare ci fermiamo ancora un po’, forse per altri dieci giorni!” avevano risposto  frettolosamente, togliendosi le ciabatte.
Curiosa della loro vita, osservavo con attenzione le facce mature e gli occhi, astuti e intelligenti.
Polsi, collo e caviglie erano ornati dai fantastici vezzi colorati e variopinti “turbanti” nascondevano le teste  con treccine meticolosamente raccolte in una piccola coda.
Ogni tanto i nostri sguardi si incontravano e ci scambiavamo taciti segni d’intesa. I teneri sorrisi rivelavano la loro vera natura, gentile e disponibile.
La più anziana, però, rimaneva sempre assente, passiva e spenta.  Le profonde rughe solcavano le guance bigie e una pesante felpa, anche se era un caldo soffocante, ricopriva la sua lunga tunica in fantasia bianco - celeste.
Sistemate nelle cuccette, finalmente ci stavamo rilassando.
Il treno scorreva nel buio ed io stavo in ascolto. Una lucina blu illuminava appena l’oscurità piena d’intricate fantasticherie. Quel silenzio notturno respirava i segreti oscuri che con terrore gridavano attorno ai questi angeli bruni, inquieti nei loro sogni.
Lo spazio dello scompartimento si ampliava in un panorama di mondi misteriosi con strane dimore in argilla rossiccia della savana, maschere e statue simboliche, atroci riti religiosi.
Il nero vetro della finestra rifletteva raccapriccianti scenari del mio portatile acceso.
La mattinata si tingeva dei colori di un’alba qualsiasi. In mezzo ai frammenti di un paesaggio immaginario, guardavo le donne destarsi dal sonno. Spuntavano pigramente tra le valige e sbadigliando al sole, strutturavano i loro esotici turbanti con complicati giri di un lungo drappo. Con ritualità staccavano con i denti pezzetti di strani bastoncini, masticandoli con immensa  soddisfazione.   L’unica che si era alzata era la più anziana, ma solo per riempire d’acqua, a metà, una piccola tanica di plastica trasparente.
Nessuna di loro aveva bevuto o mangiato  qualcosa. Nessuna aveva usato il bagno.
Lasciavo la mia avventura con lo zaino pieno di nuovi emozioni,  futuri racconti in cui vedevo migrare dei popoli, le loro sofferenze e lotte.
L’ultimo saluto fu uno sfiorarsi di mani. Mani che non avrebbero mai potuto scrivere frasi false o spregevoli.

                                                                                                                   Daniela Karewicz




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